Indice
Capitolo 3
|
Le umane risposte
Natura come messa in comune di una società
Capitolo 3: Le umane risposte

Natura come messa in comune di una società

L’ecologia queer è anche un modo di sfidare l’urbanizzazione speculativa e le visioni strettamente strumentali della natura. Attraverso le sue lenti siamo in grado di apprezzare la natura semplicemente in termini di sua prosperità, di città multispecie o di «pluriverso ecologico»

Conversazione con Matthew Gandy di Tiziana Villani

[Matthew Gandy] Sono venuto a conoscenza del lavoro di Tiziana quasi vent’anni fa, lungo la mia strada, un lavoro in italiano estremamente interessante che dei colleghi hanno tradotto e portato alla mia attenzione. È davvero bello quindi poter avere una conversazione diretta e penso di ricollegarla al mio lavoro sull’ecologia queer, soprattutto in rapporto a un’area a nord di Londra dove ho svolto molta ricerca. Questo ha portato anche a un’interessantissima traduzione francese per quel particolare insieme di opere. La questione della teoria queer e in particolare delle sue relazioni con lo spazio urbano è da un po’ un filo costante o ricorrente nel mio lavoro.

[Tiziana Villani] Intanto piacere di vederti Matthew. Con Edizioni Eterotopia France abbiamo pubblicato Ecologia queer per un discorso molto importante, che è quello di rapportare il concetto di queer allo spazio urbano. Nello specifico, a uno spazio che si è modificato, Abney Park a Londra, dove non solo la natura si trasformava, ma si trasformavano le soggettività. Qui Matthew ha fatto un richiamo importante al lavoro di Foucault sulle eterotopie. Ma la cosa più importante è la visione dell’ecologia politica che ci offre Gandy, perché è un’ecologia non più dualistica, non più binaria, bensì un’ecologia delle relazioni: sociali, politiche, dell’urbano, in un momento in cui la tecnica sta modificando i nostri sistemi di vita, ma anche di quello che ci suggeriscono le pandemie, le catastrofi… Dunque è una metamorfosi ciò che interroga, e usa il concetto di queer come meticciamento, ma in positivo, come possibilità di una trasformazione molto positiva, molto resistenziale oserei dire, rispetto alle trasformazioni determinate solo a essere conflitto. Il conflitto è creativo, è artistico.

[M.G.] Penso che possa essere utile chiarire come concettualizzare il ruolo della teoria queer in rapporto all’analisi o alla comprensione dello spazio urbano. Chiaramente considero il contributo della teoria queer come molto più di un’indagine, per esempio, sulle identità sessuali. Lo vedo come qualcosa che si riferisce alla complessità nella sua forma socio-spaziale più completa. Vedo nella teoria queer qualcosa che sfida o dissolve le categorie tassonomiche esistenti; qualcosa che può arricchire l’immaginazione della ricerca e anche ispirare artisti ed ecologisti, attivisti sociali. E penso che in parte si riferisca alla mia visione di lunga data che la politica lesbica e gay hanno il potenziale di rendere chiunque libero, di liberare l’intera società. Questa sfida alle norme e alle categorie esistenti ha quindi implicazioni molto profonde. Vedo anche una teoria queer come un modo per destabilizzare le soggettività, in modo da andare oltre il soggetto umano individuale limitato per delineare nuove configurazioni, non solo costellazioni di agency umana ma anche il non umano. E per me la questione della teoria queer serve anche a destabilizzare varie categorie ecologiche non scientifiche. La nozione ideologica del paesaggio culturale indigeno, ad esempio, può essere direttamente messa in discussione prendendo un punto di vista intellettuale o politico. Tengo in considerazione, ad esempio, il lavoro di Gayatri Gopinath sull’immaginario regionale queer, e ho cercato di collegarlo alla mia concezione delle ecologie cosmopolite nello spazio urbano. Questa questione di complessità e di sfida alle concezioni strettamente nativiste del paesaggio quindi è anche parte della mia concettualizzazione della teoria queer. Sono anche stato ampiamente influenzato dal lavoro di Sarah Ahmed, e dal suo concetto di fenomenologia queer, che ho trovato incredibilmente utile come punto di osservazione analitico, essenzialmente attraverso un doppio significato, perché è l’orientamento tra soggetti umani e l’altro che si può estendere al non umano o dall’altro-rispetto-all’umano. Ma anche perché, almeno nella lingua inglese, mostrano certi orientamenti che indicano questo rapporto all’Altro spaziale e culturale e al concetto di Oriente, e che ancora una volta credo alimenti questa nozione di destabilizzazione delle norme e categorie esistenti. Quindi, per me, la teoria queer va chiaramente ben oltre la comprensione convenzionale dell’essere umano o del singolo soggetto umano, il che fa parte del mio continuo interesse per le ecologie queer. 

[T.V.] Grazie. È molto importante questa precisazione perché il termine queer nasce in un ambito preciso e poi diventa, come sappiamo, scarto, offesa sessuale. Io credo che il lavoro di Gandy sia fondamentale perché permette di agganciare un pensiero, che inizia a essere più conosciuto anche in Francia e in Italia, riguardante il pensiero cosiddetto ecologico decoloniale o postcoloniale che dir si voglia, che ha dietro moltissime attiviste autodichiaratesi queer proprio per questo passaggio fuori dalla categorizzazione. Mi piacerebbe che Matthew tornasse su questo aspetto, su una sessualità non più categorizzata, rigidamente schematizzata; su come lo spazio rompe la sua, direbbe Foucault, quadrettatura, perimetrazione. Penso ad autrici purtroppo poco conosciute degli anni ’50 e ’60, come Gloria Evangelina Anzaldúa, che ha scritto Borderlands, importantissimo testo sulle condizioni della frontiera come spazio ma anche come genere. Lei, attivista femminista lesbica militante, pensa in relazione a uno spazio che costruisce la sua soggettività e anche la interroga. O ad altre personalità importanti come Audre Lorde. C’è insomma una costellazione che rompe con ogni forma binaria e, cosa importante, questo si declina in uno spazio. L’ecologia si declina in una dimensione spaziale, dove la natura è concepita all’interno di queste relazioni, non è l’Altro dal soggetto, l’Altro dall’uomo. Noi siamo natura e siamo anche disposizione tecnica della natura. In questo la costellazione diventa grandissima. 

Aggiungo che non c’è una concezione nostalgica o romantica della natura. La natura è qualcosa che è trasformato come noi esseri umani, come tutte le forme del vivente, ma noi abbiamo bisogno di trovare condizioni di vita, anche naturali, più soddisfacenti, nel momento in cui la tecnica (io ero partita dai lavori sul cyborg) si autonomizza troppo da noi e rischiamo di trovarci in una condizione di espropriazione dei saperi, delle conoscenze, delle pratiche, che sono pratiche spaziali ma, io credo, con una centralità sulle città e sull’urbano, perché l’urbano è il nostro campo di sperimentazione. 

[M.G.] Sì, penso che un’ecologia queer ci aiuti a dissipare la nozione di natura come una sorta di apparato ideologico fisso, e la natura stessa diventa uno spazio di divenire e possibilità. E penso che questo sia molto importante perché i costrutti ideologici della natura sono ripetutamente ricavati in relazione a concezioni conservatrici o reazionarie, nostalgiche o quasi romantiche del paesaggio e così via. Dunque destabilizzare queste visioni e sfidarle ha implicazioni politiche molto profonde.

[T.V.] Noi abbiamo voluto pubblicare Queer Ecology con l’aiuto e il suggerimento di Alessio Kolioulis perché abbiamo fatto una scelta di ricerca, ma anche militante, rispetto all’ecologia, un termine diventato, come diceva Matthew, abusato e reazionario. Si parla di greenwashing, lo fanno gli ambientalisti, ma c’è di peggio: c’è l’idea di una natura parte di un pensiero di destra, razzista, conservatore, discriminatorio. Il campo del queer e dell’ecologia politica ha invece anche un suo smarcamento critico molto importante, che è quello di pensare a una condizione che riguarda il nostro mondo, la nostra società, il nostro modello di sviluppo. Non possiamo uscircene con delle azioni moralistiche o decorative o consolatrici. Quando Matthew parla della natura anche in città, non è il giardino che adorna la città, che ci consola delle condizioni di vita che continuano a peggiorare: l’inquinamento, l’espropriazione dei beni comuni e dell’acqua. Natura vuol dire messa in comune di una società, dei suoi bisogni di liberazione più importanti. Vuol dire liberazione dal bisogno, dalle identità strette, spesso reazionarie. Vorrei quindi chiedere a Matthew se ci può parlare dei suoi ultimi lavori sulla natura e sull’urbano.

[M.G.] Penso che la prima cosa da ricordare sia che l’ecologia queer è anche un modo di sfidare l’urbanizzazione speculativa e le visioni strettamente strumentali della natura; che attraverso lo sguardo dell’ecologia queer siamo in grado di apprezzare la natura nel senso più puro, in termini non di un mero concetto di valore d’uso, ma semplicemente in termini della sua prosperità, in termini di città multispecie o di quello che recentemente ho definito pluriverso ecologico. Nel mio ultimo libro, Natura Urbana: Ecological Constellations in Urban Space, ho cercato di sviluppare una serie di miei argomenti in modo più dettagliato in relazione a ciò che intendiamo come natura urbana e di chiarire alcuni dei principali punti di vista analitici per lo studio della natura urbana. E uno degli argomenti che ho avanzato è che ci sono quattro punti di vista principali: c’è l’approccio dei sistemi, che in effetti è dominante in tutto il campo ambientale e si basa molto sulla quantificazione nel controllo della misurazione degli ambienti urbani; c’è poi un secondo filone molto interessante, risalente certamente al XIX secolo, che posso descrivere come osservazione o paradigma, con i primi lavori di botanici, ornitologi e simili, che erano semplicemente affascinati dalle ecologie urbane, dalle loro condizioni, in termini di flora insolita che trovavano per esempio tra le rovine e in altri interessanti microspazi della città; un terzo filone, che definirei ecologia politica urbana, è emerso fortemente dagli anni Novanta, influenzato dalle intuizioni neomarxiste, dalla Scuola di Francoforte, da filoni radicali degli studi sulla tecnologia, sul razzismo, sugli ambienti tossici all’interno delle città, che sono stati molto importanti per i miei lavori; più di recente, penso che ci sia una quarta area, che è quella per cui ho usato termini come «città multispecie» e «pluriverso ecologico», che portano il non umano o l’altro-rispetto-all’umano più direttamente nel quadro di analisi… Ed è qui che un’ecologia queer penso fornisca una serie di ponti concettuali molto interessanti tra alcune di queste aree, collegandosi con il paradigma di osservazione in termini di attenzione a ciò che è interessante, all’insolito, al fuori luogo in uno spazio urbano, collegandosi con l’ecologia politica urbana e l’importanza dei movimenti sociali urbani e della giustizia sociale in relazione alla scena urbana, e quindi raggiungendo i concetti postfenomenologici di agency altra-rispetto-all’umano o di configurazioni multiple di agency nello spazio urbano. La teoria queer e l’ecologia queer formano quindi una parte del mio tentativo di esplorare, di navigare il terreno intellettuale della natura urbana e della scena urbana. 

[T.V.] E importante questa precisazione di Matthew, perché c’è un problema molto importante di ordine estetico-politico oggi aperto riguardante la questione ambientale, la questione ecologica, che è in rapporto ai regimi di comunicazione. Matthew, giustamente, evocava la Scuola di Francoforte, ma c’è anche una gran parte di pensiero critico francese, non solo Foucault, anche Deleuze, Guattari. Io oggi trovo però centrale il fatto che questo allarme sull’ambiente e paradossalmente anche certe parti del movimento ambientalista hanno dato voce a un nuovo paradigma estetico, un paradigma in cui l’ecologia viene giocata sul piano morale, direi con l’ambito di derivazione americana del politicamente corretto. Ossia, bisogna fare certi gesti, adottare comportamenti che di fatto però impediscono di toccare il vero problema ecologico, che è di una crisi di scala mondiale, da molti chiamato modello estrattivo (non so se è la parola giusta), che però riguarda comunità intere, non comunità qualunque, riproponendo un problema di disuguaglianza sociale, che è di emarginazione sessuale, di collocazione all’interno delle appartenenze, delle comunità, dell’identità. Ora la comunicazione, a mio avviso, sta svolgendo un lavoro di cancellazione di questo, e di continuo si fa un rimando a una moralistica presa di coscienza che è urgente non sprecare, non inquinare nel quotidiano, utilizzare bene l’energia. Tutto questo è un piccolo racconto in rapporto alla gravità attuale dei problemi, delle azioni delle multinazionali che racconta anche Vandana Shiva nei suoi lavori. 

[M.G.] Sì, penso che sia molto interessante sollevare la questione dell’estetica e della politica in relazione alla natura urbana, e vorrei far notare che quando consideriamo l’estetica della natura spesso abbiamo a che fare con categorie estetiche come il bello o il sublime. Tra le cose per me interessanti riguardo agli spazi urbani marginali e le aree urbane abbandonate vi è il fatto che scardinano le categorie estetiche della natura bella, ordinata, e introducono diversi tipi di esperienza estetica, diverse modalità di interazione culturale con la natura. Credo che sia estremamente importante perché quando si pensa all’intersezione tra ecologia e dinamiche speculative di organizzazione capitalista, questa cosa si basa anche sulle risorse della natura sia esteticamente sia in termini puramente materiali, di risorse, attraverso la progettazione di paesaggi architettonici e così via. Una cosa che m’interessa molto è quali risorse estetiche alternative possono essere fornite da questi spazi disordinati o selvaggi della natura all’interno della città, che indicano anche diverse modalità potenziali di mobilitazione sociale o culturale. Abbiamo accennato alle ecologie globali cosmopolite e al modo in cui queste formulazioni sfidano concezioni nativiste o razziste della natura, ma penso che i nostri spazi di natura selvaggi destabilizzino anche concezioni molto strette delle relazioni ecologiche. Questi spazi selvaggi all’interno della città sono indicativi di costellazioni socioecologiche alternative, immaginari ecologici alternativi, e forniscono potenziali risorse culturali per pensare a nuovi modi di vita urbana e nuovi modi di vivere con altre presenze non umane nello spazio urbano. E aggiungerei, forse, che quando pensiamo al greening del capitalismo in modo efficace e all’uso di giustificazioni ecologiche, alcuni dei paesaggi più ecologicamente dannosi, come prati o campi da golf e spazi di questo tipo, rientrano in questo paradigma strettamente controllato che usa la natura per consentire la circolazione di capitali eccetera all’interno dello spazio urbano. 

[T.V.] Giusto su questa questione, a mio avviso il problema dell’ecologia e del queer è che indica una strada possibile, anche estetica (su questo poi torniamo), verso la moltiplicazione delle possibilità, verso l’apertura, la diversificazione degli spazi e delle soggettività. Nel mentre però sta capitando che in verità noi andiamo verso forme sempre più strette di omologazione, sia della natura che degli spazi e dell’urbano soprattutto. Il motivo della gentrificazione è un processo che organizza spazio, natura, esseri umani, classi, identità, orientamenti sessuali. Quindi mentre il queer indica le zone di possibile rottura di questa catalogazione, in verità essendo noi in società molto complesse assistiamo a meccanismi di controllo che necessitano di essere omologanti.

[M.G.] Sì, penso che sia molto importante comprendere il modo in cui il queering dell’ecologia comporta una questione di apertura, moltiplicazione e molteplicità. E possiamo avanzare questi argomenti, come suggeriva Tiziana, contro questa deriva verso un’omogeneità in relazione alle culture della natura. E anche nell’architettura e nel design, con il concetto di ecologie generiche, dove concetti semplicistici come le pareti verdi e così via sono utilizzati in qualsiasi contesto con semplicità, senza riferimento alle complessità ecologiche del luogo. E credo che questo concetto di ecologie generiche si sia diffuso sotto quello che definisco Antropocene adattativo, un discorso legato all’Antropocene che è strettamente allineato con le dinamiche speculative di urbanizzazione capitalista, argomenti di resilienza, geoingegneria e simili. Ma un’ecologia queer mette in discussione queste relazioni strumentali, semplificative o riduttive. Volevo anche ricollegarmi a un commento che Tiziana ha espresso in merito a modelli estrattivi e frontiere estrattive: che spesso la violenza che si manifesta verso la natura e i suoi difensori poggia sulla caratterizzazione di spazi remoti come vuoti o privi di qualsiasi tipo di valori. E, naturalmente, questo lo si può vedere anche all’interno della scena urbana rispetto ad alcuni vivaci spazi marginali, molto importanti sia ecologicamente sia culturalmente, e abitualmente narrati come spazi vuoti, pericolosi o brutti che devono essere rimossi o eliminati in favore di un’urbanistica del paesaggio o di alcuni altri paradigmi che cercano di portare gli spazi marginali all’interno delle dinamiche di circolazione dell’organizzazione capitalista. Vediamo dunque questa tensione, come dire, tra ordine e disordine, e vediamo tentativi di controllare la natura nella scena urbana. 

[T.V.] C’è un’altra suggestione su cui Matthew può tornare, quella di eterotopia di Foucault, che lui però riprende in maniera molto originale. Diciamo per chiarezza che Foucault elabora questo concetto durante una conferenza di architettura e individua quegli spazi che si possono definire spazi altri, spazi dell’attraverso. Matthew lo ha applicato ad alcune delle sue analisi, e l’ha usato in maniera creativa, teoricamente puntuale. Vorrei che ci precisasse questo suo riferimento alle eterotopie foucaultiane, perché credo che anche oggi, mentre siamo nel pieno di un’omologazione, si aprano sempre fratture, crepe nelle quali nasce qualcosa di assolutamente altro. 

[M.G.]. Sì, naturalmente la nozione di eterotopia è stata per me molto importante nel tentativo di concettualizzare Abney Park, pensandolo come un altro spazio. Ma anch’io mi sono interessato molto al concetto di una simultaneità di più modi di esistere all’interno di uno spazio urbano e anche al concetto di complessità e tempo. In alcuni dei miei ultimi lavori sul sito di Abney Park ho osservato l’ecologia di alberi secolari che ospitano forme spaziali incredibilmente complesse, che a loro volta supportano livelli di biodiversità elevatissimi. Le definisco talvolta ecologie saproxiliche, ecologie della decomposizione e della morte che, paradossalmente, sostengono vite rigogliose e, soprattutto, rari invertebrati. Questo per me è anche fonte di grande fascino, perché quegli alberi secolari sono fuori luogo all’interno delle strutture burocratiche e manageriali dello spazio urbano, perché deformi, storti; la gente ha paura che possano cadere su qualcuno e portare a richieste di danni assicurativi, o si sente a disagio rispetto al da farsi su alberi che comunque sono estremamente importanti per la biodiversità urbana. Questo è stato il mio lavoro più recente su Abney Park. Aggiungo che il parco si trova a circa 100 metri da dove vivo a Londra, quindi a volte ho avuto la possibilità di andarci tutti i giorni solo per guardarmi intorno. Da un punto di vista metodologico m’interessa molto, riferendomi a un concetto dell’autore francese Perec, il senso dello stare in un posto e di osservare con molta attenzione, senza mettersi fretta, dandosi il tempo di notare l’insolito, la complessità e di sviluppare idee concettuali su spazi inusuali, ma a diverse scale. In alcune parti dei miei ultimi lavori ho osservato con grande attenzione un insetto molto raro, una mosca che si mimetizza come calabrone, lo imita. L’ho studiata per un paio d’anni e solo dopo due anni in cui osservavo regolarmente un albero, una mattina di maggio ho effettivamente visto la cosa su cui mi ero concentrato nella mia ricerca, ed è stato un momento di grande gioia. Ma sono molto interessato al concetto di mimetismo ecologico, lo trovo affascinante e, in particolare, il mimetismo batesiano. Sono mimetismi del tutto innocui, molto più rari degli insetti velenosi o col pungiglione a cui assomigliano. Questa particolare mosca che si muove ed emette gli stessi suoni di un calabrone ha un nome scientifico, Pocota personata, che indica la sua straordinaria capacità di impersonare un altro organismo. Ma sono stato anche molto incuriosito dalla questione del tempo, perché la metamorfosi degli insetti è straordinaria, tanto che se la spiegassi a qualcuno forse nemmeno crederebbe che esista un ciclo di vita del genere. E una delle cose strane sulla Pocota personata e su molti di questi straordinari invertebrati saproxilici è che la fase larvale avviene all’interno di un profondo incavo o in punti marciti di questi alberi deformi; le larve sono come alieni grotteschi, multisegmentati, con organi per la respirazione stranissimi, adattati a questi strani ambienti, e da queste specie di forme aliene emergono a volte degli insetti straordinariamente belli e spettacolari, alcuni dei quali vivono solo per un paio di giorni, anche se la fase larvale può durare diversi anni, in alcuni casi. Per me quindi la questione dell’ecologia, del tempo e del mimetismo in relazione all’ecologia saproxilica è estremamente interessante e si ricollega anche ad alcuni dei miei interessi letterari rispetto a Nabokov e al concetto di mimetismo. 

Tornando alla mia osservazione iniziale e alla metodologia, la possibilità di studiare uno spazio molto attentamente, a più riprese anche nel tempo, con quello che si potrebbe definire studio longitudinale, che ci consente di guardare ai cambiamenti in aree o località specifiche per un lungo periodo di tempo e in particolare per gli invertebrati, che sono il mio settore di specializzazione, è molto rara. Per me è quindi un vero piacere essere coinvolto in iniziative di citizen science e raccogliere dati contribuendo a grandi programmi di monitoraggio, per riconoscere e in alcuni casi anche proteggere alcuni aspetti della biodiversità 

[T.V.] È molto bello questo passaggio, grazie. Aggiungo un’ultima cosa:, io sono d’accordo con quanto, molto poeticamente, Matthew sottolineava perché quello che forse dobbiamo recuperare è l’idea di essere capaci di sensorialità, sguardo, ascolto, tattilità, quando tanta arte contemporanea ultimamente (ho gruppi di studenti che lavorano su questo) parte da un corpo chiuso, non aperto… Quanto Matthew ha appena descritto è proprio un’idea di vedere i corpi (uso un concetto di Benjamin) come porosi. Noi siamo corpi inevitabilmente connessi con tutto il resto, e siamo anche corpi in divenire, nel bene e nel male; l’immaginario costrittivo vuole invece una corporeità identificata, è molto rigido. Credo che uno dei segmenti che l’arte potrebbe far deflagrare sia quello della sensorialità rimessa al centro di un guardare anche a spazi all’apparenza banali dove però la vita brulica, si trasforma. Del resto la pandemia questo ci ha detto, in molti aspetti. 

[M.G.] Sì, penso che i metodi multisensoriali siano estremamente importanti e nel mio lavoro di docenza mi piace portare gli studenti fuori dall’aula e in strada. In particolare negli ultimi due anni, molti hanno vissuto un’esperienza di estremo isolamento o ansia, pertanto portarli all’aria aperta è importantissimo. Più in generale, la natura urbana è stata riconosciuta come un aspetto vitale per la felicità umana e il benessere. E in termini di metodologia, di metodologie multisensoriali, penso che sia molto emozionante anche alterare la concezione convenzionale, per esempio, della natura e del paesaggio, che viene percepita solo all’interno di un’osservazione o di un paradigma, spesso a distanza. Con un’immersione multisensoriale nella natura abbiamo il fenomeno dei suoni, assai stimolante per il modo in cui può conquistare spazi e risuonare in molti modi interessanti. E, naturalmente, l’odore, che è un aspetto viscerale di tutti gli organi di senso e stimola la memoria o le reazioni in modo molto profondo. Da un punto di vista teorico, per quanto riguarda la mia concezione del corpo nello spazio ho trovato davvero importante il libro di Teresa Brennan The transmission of affect. È interessante notare che Brennan non assume uno sguardo analitico strettamente allineato con concezioni neovitaliste del corpo nello spazio e che per Brennan ci sono, per esempio, in relazione all’odore, dimensioni fisiologiche molto reali dell’affetto e di come i corpi interagiscono in diverse configurazioni, tra cui l’esperienza della paura e il desiderio e così via… E insomma questo per me è molto interessante in termini di riosservazione, al di là del corpo umano delimitato come punto focale per comprendere le diverse forme di soggettività. Aggiungerei forse, in relazione ai miei ultimi commenti sulla pazienza nell’etnografia ecologica o nel lavoro sul campo in siti specifici, che riguardo al mio lavoro sulla natura urbana, sulle ecologie urbane, caratterizzerei i momenti d’incontro come una sorta d’incontro estatico, quando per esempio finalmente vedo gli invertebrati rari che aspettavo di vedere da due anni. Ma è solo attraverso quel senso di pazienza che si viene poi premiati con una particolare esperienza. E forse c’è un significato più ampio, in termini di lavoro creativo, del concetto di dare tempo alle idee e alla creatività di svilupparsi e prosperare, e anche di non aver paura della complessità. Penso che viviamo una pressione enorme a essere in grado di comunicare quasi immediatamente o nel giro di un paio di parole o frasi, l’equivalente epistemologico di un elevator pitch o simili. E voglio davvero resistere a questa pressione e riallacciarmi al concetto di cose oscure o ineffabili o contraddittorie o difficili o complesse. Voglio tenermele strette. 

[T.V.] La questione posta da Matthew è stata affrontata, in modo per me un po’ strano, e lo volevo chiedere anche a lui, da Donna Haraway nel suo ultimo testo [Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto, traduzione di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, Not | NERO editions, Roma 2019, Ndr] dove parla di alleanze, di «bambini del compost», di sparizione delle farfalle monarca. L’ultima parte del suo libro è quasi un racconto di fantascienza. La mia impressione, in questo bestiario molto bello che Donna Haraway disegna, è che rispetto a Manifesto cyborg di anni fa abbia sviluppato un pensiero delle buone regole; non è più tanto un pensiero della complessità, che apre alla complessità, ma è come se avesse già acquisito la fine di un mondo e cercasse di convivere con quello che ne resta. Mi chiedevo se anche Matthew avesse avuto modo di vedere il libro di Haraway e quello strano passaggio che molti pensatori stanno avendo di rassegnazione allo stato delle cose. 

[M.G.] Sì, è un’osservazione molto interessante. Non conosco benissimo questo saggio, ho però una conoscenza più generale del campo dell’antropologia nell’Antropocene e oltre ad Haraway potremmo aggiungere Anna Tsing, un’altra figura importante per i suoi tentativi di dare un senso al mondo contemporaneo in uno stato di crisi o di declino. Ho delle riserve rispetto ad alcuni di questi recenti contributi di antropologia, e anche di ecologia, che come dici tu sembrano essere quasi a proprio agio con il livello di distruzione e di declino ecologici. E in alcuni casi questi fenomeni sono stati riformulati, per esempio, come nuove ecologie emergenti all’interno delle rovine del capitalismo globale. Ma, ed è una cosa che mi preoccupa, all’interno di questo particolare discorso ecologico e antropologico mi manca il senso della politica. Come ho accennato in precedenza, nel contesto attuale assistiamo a un’escalation di violenza contro la natura e i difensori della natura, e penso che dobbiamo essere preparati a capirla e a confrontarci con essa. Uno degli esempi che porto nel mio nuovo libro è la foresta di Khimki, a nord di Mosca, teatro di un aspro conflitto per la costruzione di un’autostrada che attraversa una riserva naturale, e faccio notare che gli attivisti sono stati vittime di violenza e di aggressione brutale. Un giornalista di spicco è addirittura morto in seguito ai traumi riportati. Per me però la prospettiva neovitalista di ambiti come l’antropologia non risponde alle questioni politiche sulla violenza e la protezione della natura, pertanto non trovo molto soddisfacenti alcuni di questi recenti contributi della letteratura in relazione alle necessità di sviluppare prospettive di ecologia critica. Hai accennato alle farfalle monarca; ho letto di recente che alcuni importanti ecologisti che in Messico tentavano di proteggere queste farfalle sono stati uccisi. Il modo in cui concepiamo la violenza mi porta a quella che ho definito ecologia forense e a un coinvolgimento degli studi critici del diritto per provare a sistematizzare le possibilità istituzionali per la protezione della natura. E anche a prendere sul serio i nostri doveri etici verso il non umano. A questo proposito mi sono interessato a ciò che talvolta viene definito eco-costituzionalismo, l’estensione di diritti legali alla natura; è un ambito difficile ma molto interessante. E sicuramente il concetto di assegnazione di personalità giuridica al non umano non è così strano perché anche le imprese, per dire, hanno una personalità giuridica. Da un punto di vista filosofico quindi il fatto di estendere il concetto di persona al non umano non è poi un’idea così strana, a livello di discorsi giuridici critici. 

[T.V.] Grazie. Mi auguro di trovare di nuovo il tempo per stare con Matthew, di tornare a tenerci in contatto. Vi ringrazio per l’opportunità che ci avete offerto di esserci potuti rivedere, scambiare idee e progetti, da tenere preziosamente con noi. Grazie davvero a tutti voi, grazie Matthew. 

[M.G.] Thank you very much. Volevo solo aggiungere che apprezzo molto l’impegno e l’interesse di lunga data di Tiziana per il mio lavoro. È stato un vero piacere avere una conversazione direttamente con te. Moltissime grazie! 

Conversazione con Matthew Gandy di Tiziana Villani

Matthew Gandy è geografo, urbanista e critico culturale, è professore di Geografia alla Cambridge University. In precedenza ha insegnato all’University College London, dove ha diretto l’UCL Urban Laboratory. È stato anche visiting professor in diverse università tra cui la Columbia University, New York; Humboldt Universität, Technische Universität e Universität der Künste di Berlino; UCLA-University of California Los Angeles. Le sue pubblicazioni su temi urbani e ambientali includono: Concrete and Clay: Revealing Nature in New York City (The Mit Press, Cambridge, Massachusetts 2002), Urban Constellations (Jovis, Berlino 2011), The Fabric of Space: Water, Modernity and the Urban Imagination (The Mit Press, Cambridge, Massachusetts, 2014).

 

Tiziana Villani è scrittrice e saggista, direttrice della rivista «Millepiani» e delle edizioni Eterotopia France, insegna alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti, di Milano) e all’Université Paris 8. Tra le sue pubblicazioni: Athena Cyborg. Per una geografia dell’espressione: corpo, territorio, metropoli (Mimesis, Milano 1995), Gilles Deleuze. Un filosofo dalla parte del fuoco (Costa & Nolan, Milano 1998), Il tempo della trasformazione. Corpi, territori e tecnologie (Manifestolibri, Roma 2006) ed Ecologia politica. Nuove cartografie dei territori e potenza di vita (Manifestolibri; Roma 2013).