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Capitolo 3
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Le umane risposte
L’isotropia dell’arte non autoritaria
Capitolo 3: Le umane risposte

L’isotropia dell’arte non autoritaria

È un atto coraggioso immaginare uno spazio espositivo, il Padiglione Italia, come un’opera unica e immersiva che privilegi la diversità delle interpretazioni consce e inconsce del visitatore

Alessandro Melis

Non so quanto ciò che scrivo possa essere rappresentativo delle intenzioni di Eugenio Viola e Gian Maria Tosatti, ma, come emerge da The Mismeasure of Men, di Stephen Jay Gould [1981; la prima edizione italiana uscì nel 1985 presso Editori Riuniti col titolo Intelligenza e pregiudizio, Ndr], l’intenzionalità è stata ampiamente sopravvalutata, da Platone in poi, ed è tra le ragioni del crollo dell’impero del determinismo che, stando a David Graeber e David Wengrow, abbiamo nutrito, in forma esclusiva, negli ultimi diecimila anni. E trovo che ci siano anche delle interessanti suggestioni letterarie e poetiche che accomunano The Dawn of Everything [L’alba di tutto, Rizzoli, Milano 2022, Ndr] di Graeber e Wengrow, a «Storia della Notte e Destino delle Comete», il progetto di Viola e Tosatti per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2022. 

Intuisco che nel progetto per il Padiglione Italia l’ascesa e la caduta del miracolo industriale italiano siano un espediente narrativo (e teatrale) per descrivere il crollo della civilità industriale, e dell’Italia, qui in forma di sineddoche. Di quest’impegno curatoriale ammiro incondizionatamente la posizione politica rispetto alla questione ambientale. Come afferma Viola, «i problemi ambientali sono derivati da un rapporto criminale con l’ambiente circostante». La certezza che i confini fisici e culturali non abbiano più senso, se non come relitti di una tassonomia fallimentare, corrobora l’ottimismo di Viola come «necessità etica, quasi un obbligo». Solo i demiurghi dell’autotutela possono pensare che ciò che troveremo sulla nostra strada possa essere peggiore dei feticci dell’autoritarismo che ci lasceremo alle spalle, alla fine della notte. Di Viola condivido anche la polifonia artistica e l’isotropia letteraria e scientifica della visione curatoriale. 

Su queste premesse la scelta di un artista polimorfico, come Tosatti, è conseguente e inevitabile. L’immersività delle sue opere è altrettanto necessaria per scardinare, attraverso il pensiero associativo, una logica lineare che ha descritto fino ad oggi la realtà, anche oltre i confini dell’arte e dell’architettura, in forma razionale o, peggio, divinatoria. Per queste ragioni immagino che il mio uso delle «macchine sensibili» di Tosatti, in chiave esattativa, sia coerente con gli «specchi» di opere come il «Mio cuore è vuoto». Con «esattamento» mi riferisco al meccanismo evolutivo della cooptazione multifunzionale di strutture senza funzione, o il cui uso sia diventato obsoleto, descritto per la prima volta da Gould ed Elizabeth Vrba nell’articolo del 1982 Exaptation-A missing term in the science of form [la traduzione italiana di Telmo Pievani è uscita nel 2008 per Bollati Boringhieri: Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Ndr]. 

L’estensione della tassonomia della biologia evolutiva verso meccanismi indeterministici e, mi sentirei di dire in questo contesto, artistici, consente di comprendere il modo di operare in economia della natura e della creatività come sua manifestazione (non come sua alternativa) e il ruolo della plasticità, appunto, delle strutture creative, dette spandrel, come reservoir di possibilità adattative. Queste, mutuate allegoricamente dai pennacchi di San Marco a Venezia, sono strutture sufficientemente variabili, ridondanti e diverse, da poter ospitare nuove più raffinate funzioni rispetto a quelle originaria, una volta che questa si è esaurita. Allo stesso modo, nella metafora proposta da Gould e Richard Lewontin (1979), l’arte dei mosaici bizantini è in grado di conferire un nuovo significato alle strutture di sostegno della cupola della Basilica di San Marco e, allo stesso tempo, di confermare le loro qualità adattative. Queste, in particolare, sono indispensabili in caso di eventi ambientali rapidi, imprevedibili e incontrollabili. Come dire, per parafrasare le parole della paleaoantropologa Heather Pringle in un famoso articolo del 2013 su Le origini della creatività, che soltanto l’arte può fornire risposte sufficientemente radicali per rispondere positivamente ai fenomeni come le crisi ambientali, verso le quali il pensiero lineare e razionale che caratterizza le modalità standard di sopravvivenza è insufficiente e, talvolta, persino controproducente. 

Nel caso di Tosatti, la cifra distintiva della rifunzionalizzazione di strutture tettoniche, e l’uso riflesso che un suo visitatore può farne, conferma la scalabilità delle cooptazioni possibili grazie all’esattamento e la possibilità di interpretare i suoi lavori più aperti alla diversità delle presenze fisiche come dei veri e propri pennacchi culturali. La presenza umana è una delle agenzie possibili delle sue macchine che comprendono, quindi, dinamicamente, ontologie non umane, non animali, e perfino non viventi. «My dreams they’ll never surrender», installazione permanente di Castel Sant’Elmo, a Napoli, per secoli adibito a prigione, mostra per esempio un campo di grano che deve essere costantemente curato. La molteplicità di significati qui può includere quelli dichiarati, come la dedica a coloro che come Mandela e Gramsci siano stati capaci di cambiare il mondo dalla prigione, e moltissimi altri, come il mito della caverna e la possibilità di un vero e proprio ecosistema paragonabile a quello descritto da Kevin Laland e John Odling-Smee nella definizione di «costruzioni di nicchia» (2001). Ogni componente presente nell’habitat artistico escogitato da Tosatti ha infatti pari dignità e sostiene un ruolo attivo almeno nella stimolazione della serendipità creativa del visitatore. 

Il fatto che un concetto in cui il visitatore sia definitivamente sottratto all’autorità del determinismo e possa spaziare liberamente tra le nuvole della propria mente per dar sfogo alla propria immaginazione sia il risultato anche di una collaborazione tra Viola e Tosatti, mi fa ben sperare per il buon risultato del progetto per il Padiglione Italia. Gli spazi espositivi tradizionali, infatti, che prevedono allestimenti di opere puntuali nello spazio attraverso l’uso di strumenti autoritari come l’ordine, l’omogeneità, il tono del colore e perfino il dirigismo tematico o cronologico del percorso dei visitatori, sono ancora i più amati dai curatori tradizionali. In tempi di espansione dello spazio liminale della conoscenza, dovuto all’obsolescenza degli insegnamenti, l’autotutela da parte di chi esprime il proprio ruolo proprio attraverso il trasferimento di quella massa di conoscenza non può che essere un atto autoritario (spesso mascherato da autorevolezza). 

Alla luce della visionarietà dell’ultimo Pasolini, citato da Viola e Tosatti, l’idea di imbrigliare la creatività, anche quella dei visitatori, e di affidarsi al pensiero razionale per affrontare la complessità delle emergenze ambientali, che ci hanno colto completamente impreparati, sarebbe apparso quindi ancora più contraddittorio e perverso. È dunque un atto coraggioso ed eversivo quello d’immaginare uno spazio espositivo come un’opera unica e immersiva che privilegi la variabilità e la diversità delle interpretazioni consce e inconsce del visitatore, attraverso un’immersione esperienziale. 

L’inarrestabilità dei fenomeni di massa, come i flussi migratori, e la crisi sanitaria, oltre a quella ambientale già citata, confermano l’inefficacia delle reificazioni, intese come astrazioni che si consolidano nella nostra mente come fossero dei fatti. Tra questi, l’esistenza dell’artificio come evidenza del ruolo competitivo dell’uomo rispetto alla natura. La posizione critica di Tosatti si riflette quindi nell’esplorazione di ipotesi intrinsecamente ecologiche, in cui i rifiuti e le rovine possono essere opportunità di upcycling, e l’arte una sua manifestazione. 

Nelle situated ecology di Tosatti, come nell’episodio di Città del Capo, le rovine delle installazioni site specific e gli scarti della società smettono di essere tali al pari di qualsiasi altro sottoprodotto della natura. Esse diventano così un atto d’accusa verso le politiche industriali, per esempio, che ammettono l’esistenza della carica distruttiva dei relitti della civiltà, come nei casi dell’Ilva, della terra dei fuochi, e del primato di emissioni delle costruzioni a livello globale. 

Alessandro Melis

Alessandro Melis è architetto e fondatore di Heliopolis 21, pluripremiato studio di architettura con sede in Italia e nel Regno Unito, è professore della inaugural IDC Foundation Endowed Chair al New York Institute of Technology. Nel 2021 è stato il curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia.